Libro bianco
IL LIBRO BIANCO
Il “Libro Bianco”, detto erroneamente di Maroni, è, in realtà, un manifesto programmatico adottato dal governo Berlusconi/Confindustria, ma elaborato da un pool di esperti di area prevalentemente CISL/Margherita.
Il tema trattato è quello della riforma strutturale del mercato del lavoro, all’insegna dell’ultra flessibilità e della precarizzazione. Il modello preso ad esempio è quello nord americano, adattato alla peculiarità italiana e con “un occhio” alla realtà spagnola e britannica.
Con l’attuazione di questo programma, verrebbe riscritto ex novo il patto sociale su cui, bene o male, si è retto finora il Paese. Il “Libro Bianco” si dispiega nei disvalori del liberismo e nella necessità delle imprese italiane di reggere la competizione internazionale, non più affrontabile attraverso l’utilizzo disinvolto della svalutazione della lira, né in grado di svilupparsi in termini di ricerca, tecnologia e qualità.
Dunque, il “Libro Bianco” non è figlio del centrodestra, ma di quella componente europeista che ha come unico riferimento la costruzione di un organismo soprannazionale continentale - l’Unione Europea, costituzionale, politica, economica, finanziaria, monetaristica e militare – in grado di misurarsi con il mercato mondiale. Questo concetto è estremamente importante per capire la reale natura del “Libro Bianco” e per capire l’”anomalia” della coincidenza d’interessi tra l’area che lo ha elaborato e la confindustria e il centrodestra.
Dunque, è essenziale per la comprensione del “Libro Bianco” e della fase del conflitto sociale in atto, tenere presente che il bipolarismo italiano incarna null’altro che le due facce della stessa medaglia: un approccio diverso all’interno delle compatibilità e delle esigenze del mercato globalizzato.
La filosofia che informa il “Libro Bianco è imperniata su un punto fondamentale: l’eusarimento della fase della costruzione dell’Europa monetaria, che aveva come premessa il ridimensionamento della spesa pubblica, la riduzione del deficit pubblico e il governo dell’inflazione (accordo di Maastricht – 1992). Questi risultati sono stati ottenuti dai governi di centrosinistra con la concertazione con i tre sindacati confederali.
Il varo della moneta unica europea costituisce un tassello determinante per l’edificazione della Federazione (o Confederazione) d’Europa, in quanto sottrae agli Stati Nazionali uno strumento di sovranità essenziale. Il governo centralizzato della moneta sposta la gestione del contenimento dell’inflazione e del debito pubblico – sulla falsariga USA – dai singoli Stati a Bruxelles/Francoforte, rendendo superfluo il patto sociale pre-esistente.
Dunque, l’entrata nella seconda fase europea comporta il ripensamento del ruolo sindacale, che va ridimensionato ad un ruolo corporativo e locale, e il completamento delle riforme liberiste in tema di mercato del lavoro contestualmente alla liberalizzazione del mercato dei prodotti. Passaggio centrale di questa nuova fase è l’attuazione della riforma federalista dello Stato e, pertanto, l’eliminazione, o, comunque, la minimizzazione dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. Il sostanziamento di questo programma, comporterà, come devastante conseguenza, la frantumazione della forza collettiva dei lavoratori, basata sulla solidarietà, circoscrivendo localmente i conflitti sociali e pervenendo inesorabilmente alle gabbie salariali.
Il “Libro Bianco” si divide in due parti, la prima è un’analisi del mercato del lavoro in Italia, in cui vengono individuate le inefficienze e le iniquità; la seconda parte espone le proposte del cambiamento, come cura alle inefficienze ed iniquità ravvisate nell’analisi. Vista la “corposità” del testo – 88 pagine – difficilmente sintetizzabile per lo stile discorsivo, ci limiteremo ad esaminare alcuni passaggi, particolarmente interessanti, per la comprensione del tutto.
L’ANALISI – Con un’evidente operazione di legittimazione, vengono sottolineate le raccomandazioni e le critiche che l’Unione Europea rivolge all’Italia in tema di maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro, di revisione del sistema previdenziale (decollo dei fondi integrativi), di liberalizzazione del Collocamento, di riduzione della pressione fiscale sulle imprese, di incremento della formazione continua, di incremento dell’occupazione femminile. La seconda operazione di legittimazione parte dalla constatazione dell’incremento dell’occupazione, dovuta all’introduzione in Italia, delle misure contenute nel “pacchetto TREU”, con cui si avvalora l’equazione: + flessibilità = + occupazione, passando per una difesa d’ufficio, mirata a dimostrare che la flessibilità non si traduce in precarietà e puntando il dito sulle possibili asimmetrie scaturenti da un sistema flessibile in entrata, ma rigido in uscita, sistema che favorirebbe i “padri” e penalizzerebbe “i figli” e il SUD in genere. Vale la pena ricordare che il mercato del lavoro in Italia offre ai padroni tutti gli strumenti possibili in tema di licenziamenti collettivi (crisi aziendali, ristrutturazioni, delocalizzazioni, riconversioni ..) mentre, pone come unico freno al licenziamento individuale la giusta causa (articolo 18 – L.300/70), solo per le imprese che superano la soglia dei 15 dipendenti. Ma quante sono le imprese tra i 12 e i 15 dipendenti ? Da un rilevamento datoriale dovrebbero essere non più del 20% del totale, pertanto non è certo l’articolo 18 ad impedire nuove assunzioni, visto che l’80% delle piccole imprese conta dai 3 ai 10 dipendenti. Inoltre, l’introduzione del “Pacchetto TREU”, ha dato alle imprese una griglia amplissima di tipologie assunzionali, che già contengono la flessibilità in uscita (tempo determinato, interinale, formazione-lavoro, apprendistato, prestazione coordinata e continuativa, tirocinio gratuito, stage, borse di lavoro, Piani di Inserimento Professionale – PIP - part time, stagionali, LSU ..) a cui vanno aggiunte le misure in tema di esternalizzazione, privatizzazioni, cessione di rami d’azienda, appalti e sub appalti, lavoro autonomo, consulenze, molte delle quali introdotte anche nel Pubblico Impiego.
E’, dunque, falso che la disoccupazione sia figlia della rigidità in uscita, come falsa è l’affermazione dell’egoismo dei padri verso i figli. Semmai è vero il contrario: il voler mantenere diritti, duramente conquistati, è un gesto di grande solidarietà verso le giovani generazioni, che si troverebbero indifese di fronte all’arroganza e allo strapotere del padronato. Nella loro marcia di avvicinamento al modello anglo-americano, i liberisti nostrani si trovano di fronte un ostacolo che non riescono a superare: nelle società dove la flessibilità è largamente diffusa esistono anche ammortizzatori sociali – sussidi di disoccupazione – che rendono meno drammatica e più sopportabile la precarietà che ne deriva. Già Tito Boeri (docente di Economia del Lavoro presso l’Università Bocconi di Milano), consulente di Massimo D’Alema al Vertice di Lisbona, aveva rimarcato questo problema, arrivando alla conclusione che per introdurre maggiore flessibilità in Italia, occorreva contestualmente introdurre forme di sostegno al reddito, sotto forma di sussidi di disoccupazione. Se ne rende conto anche la Confindustria, che tramite il suo portavoce Brunetta (eletto nelle liste di “Forza Italia”) quantifica in 5000 miliardi l’impegno di spesa per l’introduzione di questo ammortizzatore. Ma i soldi non ci sono e allora al padronato non rimane che la carta dello scontro sociale.
L’insistenza sulle maggiori opportunità occupazionali per le donne, poi, non deve trarre in inganno. Infatti, tale preoccupazione non deriva da particolare sensibilità verso la condizione femminile, ma dall’algido calcolo, che le donne per ovvi motivi (famiglia, figli ..) sono statisticamente quelle più disponibili a forme di lavoro a tempo parziale e parasubordinato. Quanto al SUD, la ricetta è micidiale: massima flessibilità in entrata e uscita, mobilità e gabbie salariali (da notare che già si è fatto ampio uso dei patti territoriali, in deroga ai Contratti Nazionali, per non parlare del Patto di Milano, fortemente voluto dalla CISL, per “contrastare” il lavoro nero degli immigrati e altre fasce deboli, e preso come esempio da esportare ovunque). Non una parola sulle imprese del Nord che per fruire delle particolari condizioni di favore – defiscalizzazione e contributi statali generosissimi – insediano falsi siti produttivi, installando macchinari obsoleti, mentre quelli nuovi, acquistati con i soldi dello Stato rimangono al Nord, e, come preso l’ultimo rateo statale, smantellano tutto, lasciando solo deserto e disoccupazione (recente esempio di questo sciacallaggio è l’esperienza di “BLU”).
Quanto ai giovani, viene posta particolare attenzione ai tempi troppo lunghi della transizione dalla scuola al lavoro (a questo sta ponendo rimedio la Moratti con la riscoperta dell’avviamento al lavoro e con la regionalizzazione degli Istituti Professionali). Sugli anziani, visto l’invecchiamento della popolazione, l’indicazione è quella di incentivare la permanenza al lavoro, scoraggiando il pensionamento. L’excursus analitico prosegue esaminando i dati e le cause della scarsa qualità del lavoro, il rapporto tra salari e produttività per poi passare agli ammortizzatori sociali, agli incentivi all’occupazione e alla formazione.
LE PROPOSTE – Questo capitolo si apre con “EUROPA e FEDERALISMO” e con un forte richiamo ad essere coerenti con le “linee guida”proveniente dall’Unione Europea e che hanno natura vincolante per i singoli Stati (Libro Bianco Europeo – European Governance: A White Paper), rivolto a Regioni, Enti Locali e parti sociali, tutti coinvolti nei Piani di Azione Nazionale (PAN). Quindi, vengono riportate come esemplari le”buone pratiche in Europa”, a cui il mercato del lavoro nazionale si deve adeguare, al fine di avere un modello omogeneo continentale, tale da non produrre effetti distorsivi sul piano della concorrenza (un modello omogeneo favorisce la mobilità dei capitali, della forza lavoro e delle merci su un livello equiparato delle regole). E’ ovvio che l’omogeneizzazione avviene sulle esperienze dove la flessibilità e la deregolazione sono maggiori, la pressione fiscale e il costo del lavoro sono minori.
“Il dialogo fra diritto comunitario ed ordinamento interno può agire da catalizzatore nel senso di una riforma dell’assetto istituzionale interno preposto alla regolazione del mercato e dei rapporti di lavoro, con particolare attenzione ad una re-distribuzione delle competenze attraverso i vari livelli istituzionali. Una conseguenza che del resto potrà derivare anche dall’applicazione del nuovo art. 117 della Costituzione …che assegna alle Regioni potestà legislativa concorrente in materia di “tutela e sicurezza del lavoro”, “professioni”, nonché “previdenza complementare e integrativa ….sarà così possibile realizzare differenziazioni regionali che colgano le diversità dei mercati del lavoro locali, superando una stratificazione dell’ordinamento giuridico inadeguata rispetto ai mutamenti intervenuti nell’organizzazione del lavoro. Un’occasione di modernizzazione che non può essere persa, pure perseguendo, nel contempo, la realizzazione di un più compiuto disegno federalista di carattere generale…”
Abbiamo riportato testualmente uno stralcio su questo capitolo perché ci sembra particolarmente esplicito: siamo all’apologia delle gabbie salariali e al dissolvimento dei Contratti di Lavoro Nazionali. Il legislatore nazionale dovrebbe assicurare, tramite una normativa-cornice, un grado di tutela minima, recependo la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. Ovviamente si tratta di diritti astratti ed estremamente generici del tipo: “proibizione della schiavitù e del lavoro forzato”, “libertà di riunione e di associazione” ecc.. che sono più compiutamente ed efficacemente espressi nella nostra Costituzione.
Il capitolo titolato “Dialogo Sociale” descrive come la concertazione, pur andando al di là delle sue funzioni, abbia comunque assolto al suo obiettivo di contenimento salariale (politica dei redditi – accordi di luglio ’92 e ’93), di lotta all’inflazione e alla riduzione della spesa pubblica “in un clima di consenso sociale”, ma, ora raggiunti questi obiettivi e con il varo dell’EURO, tale sistema rivela tutta la sua inadeguatezza, in quanto poggia essenzialmente sulla contrattazione nazionale centralizzata. Le urgenze vogliono, invece, che si dia massimo spazio ai contratti decentrati e che ad occuparsi delle strategie macro-economiche sia, senza interferenze, il Governo. Pertanto, al sistema della concertazione deve essere sostituito il metodo del Dialogo Sociale, così come “consigliato” dall’Unione Europea. Le parti sociali dovrebbero, poi, garantire la trasposizione delle direttive comunitarie, adattandole alle specificità italiane.
Nel capitolo “LEGGI e CONTRATTI” viene posta la richiesta di rimuovere le norme che inibiscono al datore di lavoro e al prestatore d’opera di concordare condizioni in deroga alla legge e al contratto collettivo di lavoro, se non nel limite, considerato ambiguo, delle condizioni di miglior favore: ossia l’introduzione del contratto individuale. A questo fine viene citato l’esperimento in atto nei Paesi Bassi di un raccordo fra contratto collettivo e contratto individuale di lavoro definito “a scelta multipla” dove il lavoratore può optare tra un livello salariale inferiore in cambio di maggiore sicurezza del posto di lavoro, miglior trattamento retributivo con allungamento del nastro orario, rinuncia alla tredicesima in cambio di azioni della società, ecc. La questione è risibile, infatti una volta data la possibilità di deroga a leggi e contratti collettivi, sarebbe solo il datore di lavoro a scegliere la formula per lui più conveniente, vista la disparità di forza contrattuale (fatta eccezione per professionalità rare sul mercato del lavoro): il singolo lavoratore contro un’impresa ! La forza dei lavoratori sta nei contratti collettivi, in un sistema di contrattazione individuale si tornerebbe ai servi della gleba.
Nella scia della deregolazione, il “Libro Bianco”, auspica a fianco dell’espansione della contrattazione decentrata e dei contratti individuali, l’eliminazione dell’attuale legislazione del lavoro, da sostituirsi con leggi leggere (soft laws) – orientative – da accorparsi in un Testo Unico.
Un altro capitolo importante particolararmente è quello titolato “STATUTO DEI LAVORI”, che “il Governo considera necessario alla luce di quanto sopra esposto (per) procedere ad un’opera di complessiva modernizzazione dell’impianto dell’ordinamento del lavoro in Italia ..”. Partendo dalla constatazione che in Italia esista un sistema regolatorio che contrappone il lavoro dipendente al lavoro autonomo si perviene alla conclusione che occorra scrivere anche le tutele per il lavoro atipico. Intenzione meritoria, se non ché, questo nuovo “Corpus Normativo” non andrebbe ad aggiungersi a quello già esistente, contenuto nello Statuto dei Lavoratori, ma andrebbe a sostituirlo completamente, ovviamente con un arretramento dei diritti fin qui conquistati. Dietro il ricatto di tutelare i nuovi lavori, in realtà, c’è la volontà di annullare le tutele ormai storicizzate.
Passando per un ameno capitolo sulla “RESPONSABILITA’ SOCIALE DELLE IMPRESE”, anche a mezzo di codici di condotta di tipo volontario, si arriva al capitolo sulla “GIUSTIZIA DEL LAVORO”. Partendo dall’ingolfamento dei procedimenti sulle controversie del lavoro, invece di proporre un potenziamento della struttura giudiziaria, si arriva alla conclusione della sua inutilità e, quindi si propone di sostituirla con i collegi arbitrali, dando agli stessi la facoltà, in casi di licenziamento, di poter optare (?) per il reintegro o per il risarcimento. Le proposte qui esposte sono state recepite dal Governo nella legge-delega sul lavoro.
Nei seguenti capitoli, si affronta il problema dell’occupazione, individuando nelle politiche attive (formazione e lavoro coatto), nella liberalizzazione degli attuali servizi pubblici all’impiego, negli incentivi e nella riforma degli ammortizzatori sociali (sotto accusa l’istituto della mobilità e della cassa integrazione) la soluzione. La ricetta consiste nel ridurre le attuali protezioni e pervenire gradualmente ad un sistema di sussidi di disoccupazione (di tipo assicurativo, pagato dai lavoratori e dalle aziende), erogabili solo a condizione che il disoccupato dimostri di essere impegnato cercarsi un lavoro e in un sistema di formazione permanente.
Di seguito, si passa ad esaminare le varie tipologie di lavoro esistente, esaltando le forme di lavoro flessibile che devono essere estese e generalizzate (part time, interinale e intermediazione, a tempo determinato, in cooperativa) a cui vanno aggiunte altre tipologie come quelli intermittenti ( o a chiamata) e a progetto. Il lavoro intermittente o a chiamata consiste in una regolamentazione di fenomeni esistenti nel lavoro nero. In pratica, il datore di lavoro “chiama” al lavoro quando ha bisogno; in cambio di questa penosa situazione il lavoratore riceverebbe un indennità di disponibilità (non quantificata). E’ una variante, più avvilente del lavoro in affitto: la reificazione dell’essere umano-lavoratore è totale. Il LAVORO A PROGETTO consiste in una mutazione della prestazione coordinata e continuativa. Il committente contratta direttamente con il prestatore d’opera le modalità di esecuzione del lavoro, la durata, i criteri ed i tempi di corresponsione del compenso. Alcune di queste proposte sono già state recepite nella legge-delega sul lavoro.
La parte finale è dedicata interamente alle RELAZIONI INDUSTRIALI ed è ripartita in quattro tematiche: 1) Sistema Contrattuale – In sintonia con quanto affermato nei precedenti capitoli, si rappresenta la necessità di una revisione dell’attuale assetto contrattuale, assegnando al Contratto Nazionale la valenza di Accordo Quadro e lasciando alla contrattazione decentrata il compito di definire gli incrementi salariali, in un sistema di non sovrapposizione con il Contratto Nazionale. Tale revisione dovrebbe interessare non solo il lavoro privato, ma anche il Pubblico Impiego; 2) Partecipazione – In sostanza, c’è un esplicito invito a sostituire al conflitto il confronto partecipativo. Tutti uniti, imprenditori e lavoratori per la gloria del nostro sistema produttivo; 3) Democrazia Economica – Vecchio pallino della CISL e della Dottrina Sociale della Chiesa, si sostanzia nella partecipazione finanziaria dei lavoratori all’impresa. L’azionariato dei dipendenti sarebbe sorretto da un regime fiscale particolarmente favorevole e sarebbe finanziato con parte dei salari e con quote del TFR. Inutile dire che il coinvolgimento finanziario dei lavoratori all’impresa avrebbe come primo risultato quello di porre fine a qualsiasi conflitto aziendale: non si sciopera contro se stessi. Se a ciò aggiungiamo i crack finanziari come quelli della statunitense ENRON, non sembra essere una felice prospettiva; 4) Servizi pubblici essenziali e conflittualità – In tema di sciopero si prospetta un inasprimento delle norme (rarefazione oggettiva), mirate a estendere gli intervalli tra uno sciopero e l’altro; l’introduzione preventiva dell’istituto del referendum e lo sciopero virtuale e solidale (il giorno dello sciopero si va lo stesso a lavorare; la paga trattenuta con l’aggiunta di una eguale quota pagata dal datore di lavoro, sarebbe devoluta ad un fondo di solidarietà).
Da questa succinta esposizione, si evince chiaramente di essere di fronte ad un Manifesto Liberista, che se attuato, farebbe mutare decisamente i rapporti di forza a favore del padronato, distruggendo quella civiltà del lavoro, che, seppure imperfetta, ha garantito un minimo di equilibrio sociale nei rapporti tra le classi. Infine, va sottolineato - contrariamente a quanto affermato dai sindacati confederali - come nel “Libro Bianco” non si faccia cenno esplicito a modifiche dell’art. 18, semplicemente perché lo stesso va ben oltre: si cancella tutto lo Statuto dei Lavoratori per sostituirlo con il nuovo Statuto dei Lavori, improntato alla massima flessibilità (in entrata e in uscita), alla revisione degli assetti contrattuali e alla neutralizzazione del diritto di sciopero.