La Globalizzazione Militarista nel XXI Secolo
L’incantesimo della pace a cui ci eravamo assuefatti nell’Europa occidentale è stato infranto il 24 febbraio 2022, data dell’invasione russa dell’ Ucraina e, in particolare, nelle regioni del Donbass, dove si trovano le due repubbliche autoproclamatesi di Lugansk e Donetsk che la Russia, secondo Putin, avrebbe già annesso, insieme ad altre due regioni, con i referendum svolti sotto l’occupazione militare in settembre. Dopo i drammatici tre anni di pandemia, l’incertezza della guerra ci ha investito, con i timori per l’ulteriore estensione oltre l’Ucraina orientale, con i tentativi di conquistare la regione di Kiev, i missili inviati a colpire tutto il paese, la distruzione delle infrastrutture energetiche, i bombardamenti russi su Odessa.
Le aree geopolitiche in tensione
Il ritorno della guerra in Europa, senza dimenticare la disgregazione della Yugoslavia negli anni ’90, si situa nel quadro di dinamiche in atto su scala intercontinentale: il sistema geopolitico si compone infatti di macroaree sempre più spesso in collisione per interessi produttivi, economico-sociali, commerciali, finanziari e politico-istituzionali. Si può delineare l’ultimo trentennio di storia mondiale in alcune fasi: a) crisi del bipolarismo della “guerra fredda”, con la fine del blocco sovietico (1991-1998); b) tentativo statunitense di imporre un dominio unilaterale euro-atlantico sotto l’egida della NATO a guida USA (1998-2010); c) affermazione tendenziale del multilateralismo, con tensioni emergenti tra i vari poli economico-politico-militari (dal 2011 ad oggi). Possiamo applicare la teoria geologica delle placche tettoniche alle aree geopolitiche: dopo decenni di “congelamento” durante la “guerra fredda”, siamo entrati in un'epoca di collisione tra zolle in movimento, con le zone di guerra a rappresentare le faglie di frattura tra blocchi continentali. In tale quadro, si manifestano acuti conflitti regionali per il dominio di aree strategiche da parte di potenze dispotiche (ad esempio: la Cina per Taiwan, oltre alla Russia rispetto ai paesi dell’ex blocco sovietico, ma anche in Siria, Libia e nel conflitto tra Serbia e Kosovo) o nuovamente proiezioni imperialiste USA con alleati occidentali (anch'esse operanti pure nei conflitti tra Serbia e Kosovo, in Siria e in Libia), oppure l’emersione di autocrazie ferocemente repressive (come in Iran, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, India), in una sorta di terza guerra mondiale a tappe.
In tale trasformazione degli equilibri mondiali, che incidono sulle dinamiche interne ai Paesi europei, vanno comprese le possibili ricadute nella nostra società e nell'impianto politico-culturale italiano, incidendo anche sul mondo della scuola, della formazione e dell’istruzione, e valutare come la guerra possa cambiare la nostra percezione dei rapporti interni alla UE e con i Paesi di confine o extraeuropei, come Russia e Cina (per citare i più emblematici). È innegabile la responsabilità russa dell'invasione, della guerra e dei criminali bombardamenti su obiettivi civili, non giustificabili in alcun modo. Tali responsabilità vanno inquadrate nel più che decennale piano russo teso a ricostruire un’unità imperiale tra la Grande Russia, la Bielorussia e la Piccola Russia (l’attuale Ucraina, a cui si nega la dignità di nazione) con evidenti richiami alla supremazia della civiltà russa, cardine ideologico della Chiesa Ortodossa di Kirill. In tale contesto vanno collocate le guerre in Cecenia e in Georgia, giustificate dalla Russia, nel primo caso, come lotta al terrorismo e, nel secondo, dal sostegno all'Ossezia del Sud a cui era stata negata l’autonomia dal governo georgiano, il cui presidente Saakašvili, appena eletto nel 2004, aveva avviato la procedura per entrare nella NATO. Va, inoltre, ricordato il mancato rispetto del Memorandum di Budapest del 1994, firmato in cambio della consegna alla Russia dell’armamentario nucleare ucraino che ne faceva la terza potenza nucleare al mondo, realizzando l’unico disarmo nucleare unilaterale della storia. Russia, Usa, UK (e in seguito anche Francia e Cina) si impegnavano “a rispettare l'indipendenza e la sovranità dell'Ucraina e i confini esistenti, (..) ad astenersi dal minacciare o dall'usare la forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica dell'Ucraina, (..) ad astenersi da pressioni economiche per soggiogare i diritti dell'Ucraina”. Un altro elemento decisivo è stato il rifiuto ucraino di aderire all’Unione Economica Euroasiatica e il correlato avvicinamento all’Unione Europea.
Al contempo, non si può tacere sull’espansione ad Est della NATO, nonostante le assicurazioni fatte ai russi, dopo la caduta del Muro di Berlino, che l’Alleanza atlantica non sarebbe avanzata verso Est “neppure di un centimetro”. Tale garanzia è stata disattesa: da allora 14 paesi sono passati dall’ex impero sovietico all’Alleanza militare atlantica, mentre il Patto di Varsavia è stato sciolto nel luglio del 1991. Questi eventi hanno contribuito a destabilizzare tutta l’area e fornito a Putin il pretesto per l’aggressione: ma, al tempo stesso, va ricordato che l’adesione alla Nato dei 14 paesi è avvenuta con i meccanismi di pressione del diritto internazionale, cioè con la disuguaglianza sostanziale in termini economici, politici e militari, e non con aggressioni belliche.
La guerra nel Donbass e russo-ucraina
Come i conflitti nei Balcani sono stati accentuati dai paesi occidentali, sostenendo aggressivi nazionalismi nell’area, analogamente nel Donbass si sono lasciate combattere per otto anni bande paramilitari contrapposte. La destabilizzazione nell’Europa dell’Est ha provocato, dal 2014, il processo separatista nel Donbass, con correlata compressione etnico-culturale da parte ucraina e la guerra civile con circa 14mila vittime; e la mancata applicazione dei due trattati Minsk I e Minsk II ha ulteriormente incrinato i precari equilibri dell’area. Al riconoscimento della brutale politica di potenza imperiale esercitata dalla Russia, che negli ultimi anni ha cercato di recuperare la propria centralità perduta dopo la dissoluzione dell'URSS, vanno aggiunte le responsabilità dell'Occidente (USA, NATO e UE) nella destabilizzazione prima della Jugoslavia e poi dell'Est Europeo.
Ma la scorciatoia intrapresa da Putin, per dirimere la controversia territoriale nel Donbass e in Crimea, si è tradotta in un'aggressione generale all'Ucraina, infrangendo il diritto e i fragili equilibri internazionali, e avviando una feroce guerra che deve essere fermata prima possibile per evitare ulteriori vittime e un'escalation fino al disastro nucleare. Ciò non significa chiedere la “resa” da parte degli ucraini, ma costruire le condizioni per il “cessate il fuoco immediato”. Secondo alcuni, per ottenerlo, continuare ad inviare armi non è certamente una via efficace, anzi determina un’escalation militare con il rischio sempre più concreto di una distruzione nucleare. Secondo altri, invece, non inviare le armi e la correlata assistenza dell’intelligence militare occidentale determinerebbe la resa dell’Ucraina alle condizioni imposte dalla Russia, dato l’enorme divario delle forze in campo. Se nella prima posizione c’è il rischio di un cedimento alla politica di potenza e imperiale Grande Russa, nella seconda può manifestarsi la rimozione della volontà USA/NATO/UE di chiudere la Russia dentro un cordone sanitario militare. Inoltre, non va dimenticato che l’obiettivo iniziale dell’operazione militare speciale, che non aveva previsto l’inattesa resistenza ucraina, era il controllo politico di tutta l’Ucraina, mediante un governo fantoccio e l’annessione di alcuni territori, mentre l’obiettivo del governo Zelenski è la liberazione del territorio nazionale e non l’invasione della Russia: e le offerte di tregua da parte russa pongono condizioni capestro all'apertura di un tavolo di trattative. Dall'altra parte, l'atteggiamento assunto dai “falchi” del governo Zelenski e dell’amministrazione USA non appare improntato alla ricerca di una soluzione pacifica a breve scadenza, ma a proseguire il conflitto fino alla vittoria militare totale, che faccia crollare il governo Putin.
Il diritto di un popolo aggredito a difendersi non va negato a nessuno, come abbiamo sempre riconosciuto a palestinesi e kurdi, serbi e irakeni, iraniani e afghani, ceceni e vietnamiti ecc.; ma il riconoscimento del diritto alla difesa da un'aggressione non significa condividere la “causa” di chiunque, come non abbiamo sostenuto la "causa" dei talebani o delle forze della jihad solo perché combattevano contro eserciti di occupazione. La guerra in atto in Ucraina è alimentata da una logica di potenza imperiale da parte russa, mentre dall’altra si fonda sull’attrazione da parte dell’UE. La zona in guerra rappresenta un’area di faglia tra due sistemi politico-sociali ed economico-commerciali in conflitto su scala planetaria. La lotta per la supremazia produce scontri sempre più violenti, come nella prima metà del Novecento: e, come allora, ci impegna a fianco dei popoli e delle vittime civili che subiscono la violenza della guerra, senza essere risucchiati da ideologie belliciste. Perciò, la contrapposizione "resa" vs "difesa" è fuorviante, se declinata in maniera unilaterale: a questa falsa opposizione bisogna sostituire la denuncia contro ogni tipo di aggressione militare contro popoli e civili. E riprendere il dialogo per un “cessate il fuoco” e trattative diplomatiche che salvaguardino la sovranità ucraina.
La percezione della guerra e la militarizzazione sociale
Questa tragica vicenda sta cambiando la nostra percezione del mondo (dall'essere l'Europa “isola di pace", nonostante i conflitti in Jugoslavia e in Kosovo, all'essere di nuovo frontiera di guerra), rinnovando il rischio del disastro nucleare, più volte minacciato da Putin, e subendo il precipitare della crisi economico-energetica sui popoli europei, in primis su quello ucraino. Sulle dinamiche di militarizzazione culturale, sociale e territoriale in Europa (e altrove, ma noi agiamo innanzitutto qui), va evitato di “flirtare” con un generico pacifismo, e tantomeno con il “giustificazionismo” rispetto ad ogni operazione militare, perseguendo tutti i mezzi non bellici per dirimere le controversie internazionali, rivendicando l’antimilitarismo come radice costitutiva dei COBAS: temi strettamente collegati alle questioni che affrontiamo costantemente, ricerca universitaria (dove si indirizzano le poche risorse?), dissesti ambientali e grandi opere, amministrazione dei territori, visione militaresca della società.