Attualità della decrescita in relazione al lavoro
Nell’ambito dell’incontro tra i movimenti europei che si è tenuto a Firenze nel novembre scorso, come COBAS abbiamo co-organizzato un convegno che univa i temi della decrescita e del lavoro. Intorno a questi temi, spesso si sente parlare di “contraddizione tra lavoro e ambiente”: è una falsa alternativa, influenzata dai media asserviti al sistema dominante. E’ opportuno, invece, parlare di contraddizione tra “sistema capitalistico” e “ambiente” che si somma a quella storicamente affermata tra “capitale” e “lavoro”. Chico Mendes diceva che “L’ambientalismo senza lotta di classe è solo giardinaggio”, bollando come velleitario affrontare le tematiche climatico/ambientali senza mettere in discussione il modello dominante di relazioni economiche e sociali: ma troppo spesso le lotte e le rivendicazioni sociali, così come i tentativi di uscita dal sistema capitalistico messi in atto fino ad ora, non hanno tenuto nel debito conto le tematiche ambientali; parafrasando, ora potremmo dire che “La lotta di classe senza ambientalismo diventa solo un modo diverso di cadere nel baratro”. Per quanto riguarda il Lavoro è necessario un surplus di riflessione che arricchisca e attualizzi il discorso legato alla falsa contraddizione lavoro/ambiente di cui sopra, inquadrando la categoria “Lavoro” in relazione al necessario cambio di sistema socio-economico: in sintesi estrema si tratta di andare oltre alle classiche rivendicazioni di salario e diritti per costruire una nuova concezione del lavoro. Da qualche tempo si sta sviluppando un dibattito, e sono reperibili svariate pubblicazioni(1), che inquadrano il lavoro in un modo molto diverso da quello comunemente inteso: si vuole liberare il lavoro dall’essere una semplice variabile dipendente all’interno del modello vigente dominato dalla chimera dello sviluppo, declinato come crescita senza fine in un sistema finito, dall’ossessione del PIL, dall’estrattivismo senza freni, il tutto nella logica mercantilistica volta al profitto.
I temi ambientali declinati come forte critica al modello “sviluppista” si cominciano ad affermare alla fine degli anni 60, fino al rapporto del 1972 sui Limiti dello Sviluppo [significativamente, la prima edizione italiana fu stampata con un “errore” di traduzione mettendo Sviluppo nel titolo in luogo di Crescita (Growth nell’edizione originale)]: in quel periodo si fa strada l’idea della impossibilità di una crescita lineare, virtualmente senza limiti all’interno di un sistema finito; e prende forma l’ambiguità dell’uso alternato dei termini Crescita e Sviluppo come fossero sinonimi, ma dove in realtà il secondo termine cerca di nascondere la sostanziale assurdità del primo, fino al concetto di Sviluppo Sostenibile [che risulta comunque più digeribile rispetto a Crescita Sostenibile] che ha avuto la sua importanza storica, ma che nell’attualità rischia di diventare l’ennesima foglia di fico greenwashing dietro cui nascondere la volontà di affrontare la questione ambientale senza mettere in discussione il modello capitalistico vigente. Si tratta di aprire una battaglia culturale che recuperando, in maniera anche critica quando necessario, i concetti elaborati negli ultimi 50 anni, li sappia attualizzare e mettere in relazione con i concetti di Decrescita e con una nuova concezione del Lavoro, che dovrà essere liberato dai vincoli dell’attuale sistema economico sociale. In questo senso indichiamo, tra i vari, 3 nodi concettuali da prendere in considerazione:
1. Il concetto di sostenibilità, che ha un suo senso, viene ormai declinato come Sviluppo Sostenibile [per come viene spesso sottinteso, andrebbe meglio espresso come Crescita Sostenibile]. Fin dal suo esordio nel rapporto “Sottosviluppo e Sostenibilità” del 1987 [“Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”], il concetto mostra almeno due punti critici: in primo luogo viene veicolato il concetto che i “poveri” (paesi “sottosviluppati”) siano i principali responsabili del degrado ambientale; il secondo punto è la mistificazione che poneva in alternativa la “lotta alla povertà” e la “tutela ambientale” [secondo cui la prima era possibile solo attraverso un processo di industrializzazione che la seconda metteva in discussione], ignorando volutamente le pratiche di conservazione, riciclo, gestione comune e preservazioni che molte società “povere” erano/sono in grado di mettere in campo. Sono evidenti i residui di un pensiero eurocentrico, ancora basato su concetti come Sviluppo versus Sottosviluppo originario, che vedono l’Occidente come ente “civilizzatore” portatore, appunto, di Sviluppo che, nel caso, diviene meritoriamente “sostenibile”. Questo vizio, seppur più sfumato nell’attuale politically correct, si ritrova anche negli obiettivi dell’Agenda 2030, declinati in maniera universale, e quindi indistinta, sorvolando sul diverso impatto ambientale delle diverse aree e società. Come se tutte e tutti avessero le medesime responsabilità, ignorando bellamente l’enorme differenza di scala tra i consumi e gli inquinamenti (sia attuali che storicamente determinati) delle diverse nazioni. Occorre, quindi, sottoporre a critica serrata il concetto di sviluppo sostenibile, liberandolo dai residui neocoloniali.
2. Quello di “economia circolare” è un altro concetto che richiede una riflessione ulteriore; se da un lato è evidente che sia un passo in avanti rispetto ad una concezione lineare, propria del mercato capitalista tuttora dominante, permangono grossi problemi connessi a questo paradigma. In primo luogo il secondo principio della termodinamica (entropia) pone dei limiti fisici invalicabili alla possibilità di riciclo: l’inscindibile nesso tra entropia e circolarità rende un controsenso l’idea di una economia circolare in crescita. In secondo luogo, le caratteristiche peculiari del mercato fanno sì che neppure quelle misure tecnicamente possibili vengano implementate fino in fondo in quanto soggette ai vincoli di redditività economica [nella catena del profitto], basti pensare all’obsolescenza programmata e alla diffusione dell’usa e getta.
3. Il disaccoppiamento (decoupling) rappresenta l’ultima frontiera delle teorizzazioni greenwashing. La pretesa di rendere indipendenti tra loro le variabili Crescita Economica (PIL) e Pressioni sull’ambiente (uso delle risorse e impatti ambientali) appare come l’uovo di Colombo per superare le crisi climatico/ambientali senza mettere in discussione il modello economico vigente e la pretesa di crescita continua: ma tale concetto, quando applicato, si è sempre rivelato mistificante e falso. Infatti, per valutare l’effettiva validità dei processi di disaccoppiamento, si dovrebbero considerare gli aspetti globali dal punto di vista sia territoriale che temporale. Spesso vengono propagandati, rispetto ad un parametro, fenomeni di disaccoppiamento locale che, però, sono compensati da aumenti di consumo di risorse e/o di maggiori impatti in altre zone del pianeta, portando ad un aumento netto del parametro in oggetto e ad una assenza del disaccoppiamento a livello globale. Lo stesso può avvenire quando gli accoppiamenti PIL/Pressioni ambientali sono valutati su scale temporali non adeguate. Per esempio, alcuni paesi hanno migliorato [quindi ottenuto un disaccoppiamento locale] il consumo di acqua, ma solo se non si tiene conto di quello che potremmo chiamare “consumo di acqua virtuale” [che poi virtuale non è]; se si considera che un kg di carne di manzo richiede lungo l’intera catena di produzione 1500 l. di acqua, un paese in crescita economica può aumentare il suo consumo di carne a fronte di una diminuzione del consumo di acqua semplicemente perché la carne è importata, trasferendo il consumo di acqua su un altro paese. Per i “paesi sviluppati”, una gran parte della loro Impronta Ecologica viene trasferita in altri paesi attraverso i meccanismi di importazione: in particolare le emissioni di gas serra e consumo di suolo vengono trasferite nei paesi esportatori [produzioni nocive, allevamenti di bestiame ecc…], tornando di nuovo allo “scambio diseguale” e ai residui neocoloniali. E si rivela inefficace anche il progresso tecnologico: a fronte di un aumento di efficienza ed abbassamento dei costi di beni e servizi, si assiste ad un aumento della domanda e dei consumi e, quindi, della produzione, vanificando i possibili impatti positivi.
Quanto detto finora ci porta al concetto di decrescita. Si tratta di passare dal concetto di “crescita impossibile” a quello di “decrescita obbligata”; in sostanza, la decrescita non è una opzione, si darà nei fatti una volta che le tensioni sui parametri ambientali e climatici avranno superato le soglie di sopportazione del sistema planetario. Tutto sta a vedere se si potrà andare verso una decrescita controllata e gestita [più o meno felice] oppure se si avrà una decrescita in forma di collasso generale della società, con conseguenze non facili da immaginare, ma potenzialmente catastrofiche, almeno per larghe fasce della popolazione più debole. E’ in questo quadro [di decrescita obbligata] che si deve inserire una nuova concezione del lavoro, che deve essere liberato, cioè non più variabile dipendente dal mercato e sganciato dal reddito, ricordando che le persone non hanno bisogno di “lavoro” ma di reddito, diritti e servizi. Sono già in atto forti trasformazioni intorno al lavoro. I tempi di lavoro e di vita sono sempre più interconnessi, attraverso l’uso delle tecnologie, il lavoro diviene sempre più invasivo e pervasivo in tutti gli aspetti e momenti della vita quotidiana. Attraverso l’uso degli apparati di connessione e dei software sempre più spesso svolgiamo noi quelli che fino a poco tempo fa erano “lavori” di ufficio e servizi; sovente, accecati dal gusto di usare una app sullo smartphone e dalla presunta comodità del fai da te, non ci rendiamo conto che stiamo fornendo lavoro gratuito al sistema, che va a sostituire “lavoro vivo” che prima era svolto da persone fisiche [home banking, acquisti, biglietti, pagamenti vari ecc…]. Il lavoro e la produzione dovrebbero essere diretti al soddisfacimento di bisogni e non al profitto, ma questo sarebbe possibile solo in un sistema socio-economico totalmente diverso da quello attuale. Rimane da vedere come operare concretamente, nella situazione attuale, per portare avanti tale progetto di società, terreno su cui i movimenti ambientalisti, ma non solo, si dovranno confrontare.